Soledad

21 gennaio 2013 § 1 Commento

Lei dischiuse appena le labbra, occhi chiusi, quasi fosse pronta a baciarmi. Io scattai con le lacrime agli occhi ma la mano ferma per la poca luce, mentre la vedevo andar via. La congelai così nell’attimo esatto in cui la vita la abbandonava o, piuttosto come mi ero incaponito di credere, nell’attimo esatto in cui lei abbandonava me. Ci eravamo conosciuti tre mesi prima io e Soledad. Bella da fare invidia, i capelli crespi e neri e quella rabbia ferina negli occhi senza colore. Mi aveva dato appuntamento fuori dall’università, non ne ero sicuro, i nostri contatti erano stati solo attraverso tweet veloci e con i suoi mille nomi diversi con cui appariva sul mio laptop. Del mio articolo avevo ancora solo il titolo: Musica e morte. Era il ventesimo Mariachi che veniva ucciso dall’inizio dell’anno. Venti cantanti uccisi nel corso della guerra per il narcotraffico. La notizia mi arrivò come uno schiaffo illuminante. Troppo facile mostrare le guerre di mafia come qualcosa di esterno, che tanto poi si ammazzano tra di loro, e meno ne rimangono e meglio è. Avevo già scritto altri articoli in Italia, lo so, nessuno sembra accorgersi di nulla fino a che, per sbaglio, a morire è un passante ignaro, il garzone del bar o un bambino. Ci si ricorda sempre che la mafia è guerra solo quando ci rimette le penne un innocente. Poi, pochi giorni, dopo basta un arresto, o l’ennesimo eccidio tra sgherri a pacificare la nostra sete di sangue e vendetta consumata comodamente davanti alla tv. Il nostro giudizio si esprime severo dai nostri scranni a capotavola, con la pasta nel piatto. Noi siamo persone per bene. Noi con loro non ci sporchiamo le mani. Fosse vero. Se non per il mero fatto che la morte sia solo il picco evidente delle società come la nostra. Appena un brufolo epidermico su cui potersi accanire per dimenticare la cancrena infetta che ci marcisce da dentro.
Così anche io ero entrato nella redazione del Mattino per via di quella spintarella ricevuta grazie all’amico di mio padre, che è in ottimi rapporti col capo del circolo cittadino del rione Sanità che ha permesso a Don Cajani di racimolare i voti necessari per sedere ora al Parlamento, anche se, alla settima legislatura, non mi risulta che quella sedia abbia mai effettivamente incontrato il suo culo, visto che lo vedo sempre seduto ad occuparsi dei suoi affari al tavolo riservato del Gambrinus.
Insomma due anni al Mattino e, poiché ero bravo, “troppo” bravo a mettere in evidenza i fatti con le mie ormai storiche fotografie, mi ritrovai con un contratto “irrinunciabile” per il National Geographic. Contratto arrivato direttamente da Londra dopo il successo della mia ultima inchiesta su Sandokan. E si vede che ai miei dirigenti era chiaro che mi piacevano le mete esotiche e lontane. Vabbuò, insomma.
Questo era il mio primo incarico importante, con un budget discreto e libertà di tema.
Avevo pianificato tutto da Napoli e il 23 febbraio ero partito per Città del Messico. Migliaia di chilometri e dieci ore di volo per ritrovare di nuovo la mia città. Se non fosse per l’assenza del Vesuvio e l’accento notevolmente più Aragonese, a guardare questi scugnizzi ai lati delle vie avrei potuto pure pensare di ritrovarci Ciccio, mio cugino, quello che spaccia sotto al Maschio.

Soledad arrivò puntuale seguita da una ventina di ragazzini cenci che a un suo gesto sparirono all’improvviso.
Mi sorrise, pulendosi virilmente la mano sui suoi jeans troppo nuovi e si presentò. I suoi occhi senza colore erano pieni di vita. Per il primo mese volle farmi conoscere i posti dove lavorava, i bassifondi dove reclutava i suoi chicos per portarli alle varie missioni e organizzazioni. Sulla sua giacca militare gli stemmi di Emergency, di Amnesty, di Green Peace e del Che. Ma lei non lavorava per nessuno, o meglio lavorava per ognuno dei suoi ragazzi. Aveva creato una vera e propria controorganizzazione. Aveva infiltrati ovunque, parecchi dei suoi spacciavano ancora per copertura, altri lavoravano come facchini a caricare i container per le grandi spedizioni all’estero. Anche la Cia aveva provato a incastrarla, a comprarla, ad arruolarla. Ma niente, Soledad era Soledad.
Me la ero figurata come una specie di supereroe dei fumetti e invece mi trovo davanti Lazzarella, uscita da Pane, Amore e…
È incredibile come certe società che nascono al di sotto, di fianco o alle spalle delle società ufficializzate, riescano poi a darsi delle regole interne, delle procedure, delle gerarchie ed anche una propria legalità che spesso superano per efficenza quelle istituzionali. E anche questo mi riportava a Napoli immancabilmente.
In quei giorni ho conosciuto frati, guerriglieri, volontari di qualsiasi organizzazione e poi i bambini, tanti bambini, i suoi bambini. Soledad non era un supereroe, era una divinità matriarcale. La dea regina mi affiancò subito Chico e Marco estratti per meriti dalla sua corte dei miracoli. Lei non aveva mai un attimo per me, io giravo con i ragazzi, tra i ragazzi, fotografavo, scrivevo, appuntavo e notavo. Notavo che da molti non ero visto di buon occhio, le mie domande, troppe domande. Ma queste sono cose a cui un giornalista si abitua.
Gli unici momenti in cui incontravo Soledad era la sera, al campo, intorno al fuoco. Era anche il momento in cui cominciavo a percepire la presenza e l’importanza della musica tra questa gente. Diversamente da Napoli, dove abbiamo imparato a nasconderlo sotto il sarcasmo e la drammatizzazione esasperata, qui il sorriso era come un segno di orgoglio, l’orgoglio di non essere ancora feriti del tutto, di avere ancora forza per capire quali siano le cose importanti e vere.
Così il sorriso di Soledad mi incantò e credo che lei se ne sia accorta. Non saprei altrimenti spiegare quel bacio sorriso, quel bacio schiaffato, appassionato con cui mi stupì.
Lei aveva 29 anni io 32, laureata in letteratura anche lei, aveva studiato negli Stati Uniti e poi a Madrid e a Parigi.
Era stata anche a Napoli per una settimana, voleva visitare Pompei, ma poi era rimasta incantata dalla città e dimenticò la lava e le ville.
È lì che conobbe il mio amico Marcello, il mio amico visionario e rivoluzionario che ora fa il Maresciallo dei Carabinieri a Trento. Ed è Marcello che mi ha dato il suo contatto. Nonostante il lavoro, mi piacerebbe dire anche attraverso quello, Marcello è rimasto l’idealista di sempre e non si è mai arreso. Io che invece sembro in prima linea e sempre sul pezzo, pronto a bacchettare ogni malaffare, mi sono sempre sentito infiltrato tra gli infiltrati.
Sempre tranne che ora.

Il bacio? La nostra era energia pura, non saprei definirla una storia d’amore. Soledad non poteva limitarsi all’amore per un uomo, divinità universale quale era. Stavamo bene insieme e si faceva l’amore dolce e bene come tra chi vuole farsi compagnia.

Dopo 45 giorni tra i campi tornammo in città e la nostra storia rimase sospesa. Ci infilammo i vestiti buoni e cominciammo con le cene, le feste e i concerti.
Il nostro obiettivo era Don Fuentes, di li a pochi giorni ci sarebbe stata la comunione della nipote e, secondo Soledad, sarebbe stata l’occasione perfetta per il mio servizio. Mi aiutava volentieri e piena di entusiasmo perché credeva che se mi avessero pubblicato e avessi rispettato i nostri patti, il mio articolo sarebbe stata una bomba su scala planetaria.

I primi incontri furono molto tranquilli, alla maniera nostra, vieni, ti presento un amico, sai lui potrebbe essere interessato a conoscere quell’altro amico tuo, lui è giornalista, da Londra, ma è di Napoli, potrebbe servire, sa un sacco di cose dei clan di laggiù, e via crescendo di stima e onorabilità mi ritrovai in meno di un mese l’invito alla festa della Famiglia Fuentes direttamente sulla scrivania della mia camera.

Ero nervosissimo quella sera, mi sembrava di essere nuovamente osservato come mi capitava per le strade di Napoli dopo i miei articoli, una sensazione di freddo lungo la schiena.
Bussarono, aprii e il sorriso di Soledad incorniciato da un vestito rubato alla regina della Festa dei Morti mi inondò del suo colore e dimenticai ogni preoccupazione.
La villa, fuori città, era esattamente come ve la immaginate. Il tempietto Palladiano, il marmo, le colonne, il prato, le palme, le fontane, le piscine.
L’orchestra suonava già da qualche tempo e la gente si accalcava al buffet. Si, come a Napoli.
Poi entrò l’ospite d’onore, il Gigi d’Alessio locale e le donne e le ragazzine urlano, e lui canta i suoi pezzi indimenticabili.
Poi il silenzio e il brindisi, il discorso di Don Fuentes. Una sceneggiatura perfetta. E se, come me, conoscete i film di mafia, sapete che qui succederà la sparatoria. Istintivamente presi Soledad scaraventandoci sotto un carrello dei dolci. Una carneficina immediata, senza tregua. Un attacco di iene e sciacalli infuriati contro iene e sciacalli impacciati negli smoking. Il ventunesimo Mariachi ucciso. Noi salvi, a pochi metri da Don Fuentes che si vide accerchiato dai mitra.
È così che succede nelle storie di mafia, anche a Napoli, in Sicilia, a New York o a Mosca. In un attimo passi da star del momento all’oblio che il meccanismo economico e spietato, spietato come tutti i meccanismi meramente economici, richiede. Da boss intoccabile a uomo nudo e frignone davanti alle iene della tua stessa specie

Accadde tutto in un attimo che mi sembrò eterno.
Il killer alla nostra sinistra impugnò il mitra e lo puntò diritto a Don Fuentes, il grand’uomo senza pensarci un istante tirò a se la nipotina piangente col vestito bianco diventato rosso. L’indice del killer si tese. Poi un urlo spaventoso “No! È una bambina!”. Soledad non era più accanto a me ma fra la sua ennesima figlia, la sua unica figlia, la più importante, come ognuno dei suoi innumerevoli figli, e il proiettile.
Lei dischiuse appena le labbra, occhi chiusi, quasi fosse pronta a baciarmi. Io scattai con la mano ferma per la poca luce. La congelai così nell’attimo esatto in cui la vita la abbandonava, nell’attimo esatto in cui lei abbandonava me.

Con la mia Soledad ottenni il Pulitzer quell’anno, poi terminata la sete di sangue tutto tornò come prima. Ora non fotografo più, non scrivo più. Ho preso il posto di Soledad, ho i jeans strappati, sembro un guerrigliero, non sono certo un prete, ma qui tutti mi chiamano padre.

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