Layering

5 marzo 2013 § 3 commenti

Just two chords

14 ottobre 2012 § Lascia un commento

A Jazzy Mood Impro

8 ottobre 2012 § Lascia un commento

Piano improvisation 23912 Melancholic falls

23 settembre 2012 § 1 Commento

Little lullaby from the old kid

27 agosto 2012 § Lascia un commento

Free as a catched bird

15 agosto 2012 § 1 Commento

Post Haiku n.148

24 Maggio 2012 § Lascia un commento

Resto da solo
davanti a un piano
che sol non suona

DMN – a piano floating on his own digital controlled noise

23 Maggio 2012 § Lascia un commento

GuttaCava

18 Maggio 2012 § 1 Commento

When the Techno explode Piano stops

13 Maggio 2012 § Lascia un commento

Legami hyperstretched version

7 aprile 2012 § Lascia un commento

A tirare le corde al limite non è detto che debbano per forza spezzarsi.

Seven variations on a thrilling theme

24 marzo 2012 § Lascia un commento

Piano improvisatio n. 12312

12 marzo 2012 § Lascia un commento

Melarmonia n.1

22 febbraio 2012 § Lascia un commento

Piano solo version

Cento e una notte – Notte n.11

20 febbraio 2012 § Lascia un commento

Ricordi quando studiavamo insieme Fromm, cercavamo la risposta all’arte di amare, alla vita, convinti ancora che potevamo essere prima di avere. Anche l’amore viaggia alla velocità perfetta, eterno nel suo lampo fulminante. Cristallo purissimo di vita portata all’apice dell’irrazionalità, l’innamorarmi mi ha fatto sempre scoprire nuovi Daniele. Ogni palpito un nuovo io, anzi un io nuovo di crisalide in crisalide. Allora scoprimmo il tesoro dell’amore non corrisposto, destinato all’eternità perché mai completo, mai fissato, una infinita corsa col cuore in gola verso nessuna meta. Quanto sentire. Tutto esplode nella primavera di me, palpito su palpito. Ora so scrivere il tuo nome, ora so scrivere di lei, ora mi escono i baffi, ora mi diventa dritto, finalmente potrò baciare, e il gioco della bottiglia aveva il tappo puntato perennemente su te. Per quante vesti e quanti nomi tu abbia mi sorridi sempre allo stesso modo, non ho ancora capito quanto commiserevole e quanto materna. Un sorriso, giocondo, leonardiano, che con la sua sfida mi dà il mio hic et nunc, rimette l’orologio biologico allo scoccare della mezzanotte. La scarpetta di cristallo la conservo ancora nella mia teca, aspettando chi dovrà calzarla. Non sei tu neanche stavolta; ancora una volta mi hai ingannato, ma grazie per la mia settima ulteriore fioritura. La cosa più divertente è rincontrare dopo un po di tempo tutte le ragazze che hai indossato. Loro ricordano il mio sguardo innamorato, mi cercano fra le loro cartoline illustrate, mi taggano fra i loro file; hanno bisogno di un po del mio respiro per ricordarsi di chi le ha amate, di chi le ha respirate. Ma io non le riconosco senza te lì dietro. Io che per poco non soffocavo di sentimento non corrisposto, mi accorgevo troppo tardi di non aver permesso di corrisponderlo. Ogni crisalide un reset della memoria emotiva come nell’eterno bagliore di una mente immacolata. Egoista involontario, mi ritrovo ancora ad inseguirti in qualche modo migliorato. E’ la più potente droga, il mio stesso spirito, mi inebrio di quello che grazie a te io provo, in un rito sciamanico di passaggio che abbiamo affinato giorno per giorno. Poi al di la il cancello si chiude, posso guardare indietro senza perdere nulla, perché quello che potevo avere è adesso in me. Orfeo canta sereno, la tua ricchezza è la tua canzone, e la tua canzone è quello che lei ti da, anche se ora non può più chiamarsi Euridice. E mi risveglio confuso al tema d’amore di Francis Lay eseguito dai clacson nel traffico di qualsiasi città mi trovi adesso.

Quanti suicidi dovrò provocarmi ancora? Sento ormai la differenza tra uno strato e l’altro assottigliarsi sempre di più ma affinandosi anche in qualità secondo un andamento logaritmico. L’ultimo che mi hai regalato è stato un colpo di fucile in piena faccia e grondando sangue ridevo a crepapelle; da quanto mi aspettavi nascosta nell’ombra, grazie amica mia di avermi aspettato e ucciso di nuovo. E’ pasqua. Il palpito mi riempie tutto, esplodo nel cranio al colpo passante. Sto malissimo e sto benissimo, equidistanza assoluta velocità perfetta tra gli estremi, il punto più lontano dalla noia e dall’arrivo raggiunto senza tempo. Siiii ancora una volta. E mi getto sulla tastiera a scrivere e non mi accorgo più se sono i tasti bianchi e neri del piano, quelli letterati del mac, o quelli assenti del caro vecchio foglio. Non fa differenza dove scrivo, non fa differenza cosa scrivo, fluisce tutto, scivola via. Un emorragia continua, ininterrotta e copiosamente intrisa di sangue vitale. Decapitami dolce mia (a)mantide. L’insetto maschio è li tra le sue zampe di mostro, sottomesso alla sua elegante bellezza. Sa che è il suo ultimo momento, lo sente, non ha altra intelligenza che il suo istinto e l’istinto primordiale è la sopravvivenza. Lui non ha scampo, rimane immobile, paralizzato dalla paura e dall’eccitazione che la primavera gli muove inarrestabile. La copula non può avvenire in questo modo, troppa, troppa tensione. Pensa ossessionato al sesso e alla morte in un cortocircuito emozionale degno del più forte LSD. Lei lo vuole, ne ha bisogno, la stirpe delle pie mantidi deve continuare. Lui la guarda dal basso supplichevole e immobile. Lei dall’alto magnanima allarga le braccia per stringersi l’ultima volta, poi con un colpo netto fende la zampa tagliente, staccandogli la testa nel gesto più sacro che una mantide religiosa può compiere. Il capo del maschio vola via, ma il corpo rimane. Finalmente libero dal peso della coscienza razionale, il corpo privo di paure, pensieri, regole e omissioni, comincia a muovere il bacino nell’atto dell’amplesso, portando a compimento la ruota della vita eterna. La mantide genuflessa a mani giunte, piangendo con la compagna di sventura vedova nera, porta nel grembo il frutto vivo di quel sacrificio mistico. Nell’impero dei sensi Nagashi Oshima riprende la scena in un ralenty morboso. Si inebria dei suoi stessi amanti, li culla e li accompagna nel loro gesto rituale. Il maschio qui sembra avere invece il gusto della scelta razionale del proprio ruolo. Rapito nell’estasi chiede alla sua amata di congelare quell’attimo sublime in un cristallo infinito. Non finire per essere infiniti. Semplice sillogismo del piacere estremo. La leggenda dice che nella retina dei condannati a morte rimanga impressa l’immagine del loro boia, ed è per questo che i giustizieri indossano il nero cappuccio. L’orgasmo divora la paura della morte. E’ così che voglio morire, nel momento massimo del piacere. Non morire, ma sospendere cristallizzare l’attimo. Il gesto richiede la perizia di un samurai e di una geisha, deve essere perfetto come il rituale del te. Ogni gesto, ogni istante fanno parte del rito liberatorio. La decapitazione finale nel film tocca alla testa piccola, ma si rovescia la morale entomologica. Il corpo rimane a terra inutile e l’anima se ne libera ridendo, godendo. Alla mantide assurta a vittima resta solo uno sterile e inutile pendaglio di carne, al maschio il bagliore istantaneo del piacere eterno.

Cento e una notte – notte n.5

24 gennaio 2012 § Lascia un commento

Terza media, l’anno dopo dell’organo, il pianoforte entrò dentro casa per il mio compleanno e spesso lo confondo col tuo viso. Allora nell’eleganza biancoenero dei tasti surrogavi qualsiasi essere femminile. Guardiano del Faro e Il silenzio, i primi pezzi usciti da queste dita prima silenziose, ma ascoltanti, visto che suonavano ad orecchio. L’approccio facile allo strumento che chiedeva solo di essere pigiato per emettere comunque un suono, mi dava allora il fremito ad ogni nota e sinesteticamente mi sorridevi. Certo io e io eravamo sicuramente ad anni luce ma le mie dita erano tutto quello che io avevo per potermi esprimere e mi lasciavo fare. Allenavo me ogni giorno ma non mi portavo che a un minimo passo più in la e considerando che nella notazione anglosassone il la è A non ho camminato molto. Fino ad oggi in tal senso mi sono fatto in vero percorrere meno strada di quanta ancora me ne mancherebbe, ma poco importa. La menomazione fisica ha poco a che fare con me. La lascio a me, con le mie insicurezze che comunque ammiro nel mio coraggio a vivere. Madonna che pena mi facevo a guardarmi così incerto, io suggerivo ma non ascoltavo, non ce la facevo proprio ad andare quel passo più in la. La mia timidezza, che a me faceva battere il cuore, ma non come mi piaceva, non come lo fai te. E che pena, i mal di pancia flautolenti ogni giorno per andare a scuola, a comprare il latte, figuriamoci per entrare nella comitiva. Oh, guardami, son mica un mostro. Daniele guarda, sono qui dove vado? Niente il passo non arrivava. Avevo cambiato addirittura letto. Dormivo accanto al pianoforte, ma questo non serviva ad avvicinarsi a me. Quanto eravamo distanti allora. Così distanti che cominciai a farmi fare compagnia dagli spiriti, mentre io invece dormivo; nessuna paura, una compagnia discreta e confortante. Attirati dalla luce rossa dell’interruttore dello stereo, si divertivano a tenermi allegro, animando foto, chiamandomi e nascondendosi o apparendo improvvisi alle mie spalle col solito scemo BUH. Mi volevano bene e io ne volevo a loro, e gentili mi suggerivano sempre quando la professoressa di italiano sarebbe stata assente, consentendomi così di non fare i compiti. Mi dicevano pure quale domanda mi avrebbe fatto, se invece il giorno dopo mi avesse voluto interrogare, così studiavo quelle due righe e basta, tanto avrei comunque preso 8. Li ho lasciati andare via quando io mi sono ammalato; non volevo che mi raccontassero più niente del mio futuro. Vi voglio bene, ancora adesso, ma lasciatemi scoprire le cose da solo, lasciatemi il gusto dello stupore, il sapore dolciastro del sangue che lascia in bocca quel cazzotto in faccia che si chiama delusione. Ogni cazzotto mi fa comunque provare, e voglio provare, assaggiare e gustare tutto. Il cappuccino di ostrica di Adriano e le variazioni di agnello, te le ricordi? E il sapore di pomodorino e sale dell’olio siciliano! Lo stesso olio in cui friggono i capidduzzi e lo stesso sale che da dolcezza al passito. La torta di ricotta di nonna Nicoletta, l’avvicinarmi molto precocemente all’alcool con l’archermes rosso fuoco della zuppa inglese di Leda. Quanto mi piaceva sporcarmi le mani e creare….. mettere insieme cose immangiabili: farina bianca, uova crude, burro grassissimo, e poi ricordi la canzoncina? Basta un poco di zucchero e il dolceforno di mia sorella per trasformare tutto in una cosa buona, magari non bellissima ai primi esperimenti, ma buona. Magia pura: dov’è il coniglio, la farina, l’acqua? Qui ci sono solo biscotti. Il gusto del gusto. Nonna, guarda qui sulla scatola dei galletti c’è la ricetta, ci proviamo? Pedepedacchio e oplà, molto più buoni di quelli veri. E c’era anche la colonna sonora adeguata. Lo schiocco ritmico della coda della sfoglia avvolta nel mattarello di Leda. Tratatata e uova e farina erano pasta, la pasta più sottile e buona del mondo, che quando l’industria gastronautica se ne è accorta gli ha messo il nome: pasta di Campofilone. No! Mi dispiace, invoco il diritto all’eredità che mi spetta: quelle sono le tagliatelle di nonna Leda.

9 gennaio 2012 § Lascia un commento

Monochromie 8 br

8 gennaio 2012 § 2 commenti

7 gennaio 2012 § Lascia un commento

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